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Professione di vita evangelica nell'OFS di Ivana
È per me una grande gioia, essere accolta nella Fraternità dell’Ordine Francescano Secolare in Dongo.
Cosa cambia per me da questo momento in poi? Diverse persone che conosco mi hanno posto questa domanda nei giorni scorsi. Non si tratta di fare qualcosa in più, né di essere diversa da come sono ora (almeno esternamente…). Ciò che muove è lo Spirito, che gonfia le vele della vita, che dà slancio e sostiene il mio fare quotidiano.
Il laico che esprime il suo SI in modo esplicito, dichiarato, di fronte alla comunità cristiana fa un po’ strano al giorno d’oggi; è vista in genere come esperienza del religioso, non tanto del laico…ma, se ci pensiamo bene, ogni cristiano, in forza del Santo Battesimo, racchiude in sé il seme della fede in Gesù Cristo e come credente ogni battezzato è chiamato a testimoniare il Suo Amore nel mondo.
Sarebbe troppo e troppo grande pretendere di portare avanti da soli una tale missione.
Grazie allora Signore per questa chiamata alla vita in Fraternità. In Fraternità non si è soli, si condivide, si cresce insieme nella fede e nell’amore; si trovano radici che alimentano il vivere cristiano e fanno riscoprire la gioia di essere di Cristo.
Grazie Signore per il dono del tuo Santo Spirito, grazie per quella piccola vela in più che da oggi metti vicino alla grande vela della mia vita; è la piccola vela dello spirito francescano che ci aiuta a lasciar andare il superfluo per vivere e testimoniare con fiducia la Tua parola.
Voglio ringraziare le persone presenti la sera del 3 ottobre alla mia professione al terzo ordine francescano secolare. Grazie alle sorelle e ai fratelli dell’OFS di Dongo e di Chiavenna, grazie ai sacerdoti presenti, a Don Cesare, Padre Simone, Don Francesco; Grazie a Don Ivan che seppur non presente ha sicuramente ricordato questo momento nelle sue preghiere; grazie ai miei familiari e agli amici…mi sono sentita accolta, accompagnata e sostenuta da tutti voi.
Ivana
Fraternità OFS di Dongo
L'accoglienza a don Francesco
Carissimi della Comunità Pastorale della Valle Albano, sabato 21 settembre scorso mi avete accolto nella vostra comunità: è stata una serata molto significativa, che mi ha meravigliato positivamente e di cui vi ringrazio! Da questa partecipazione capisco che c’è molta voglia di proseguire il cammino e mettere a disposizione le proprie qualità per tutti: sono qui per aiutarvi (e aiutarmi) a portare continuità in quest’opera. È chiaro che, come dicevo sabato, per fare ciò è necessario essere in comunione tra di noi ed essere avvolti dall’amore del Signore: questo significa sia che i preti vi vogliano bene e vi ascoltino…ma anche il viceversa, non dimentichiamocelo mai: anche noi “don” abbiamo bisogno di voi. Noi sacerdoti siamo per la comunità, non un possesso di qualcuno. Credo che il bene che compiamo nasca dal desiderio di rispondere alla prima domanda che Gesù pone nel Vangelo: “Che cosa cercate?”; il nostro “fare” ed “essere” deve andare di pari passo con la risposta a questa domanda fondamentale del cristiano, presente anche in ogni uomo e donna di questo mondo. Vi ringrazio ancora per il bene di cui già mi avete circondato e sono certo che questo possa continuare per il tempo che il vescovo mi lascerà con voi. La gioia del Signore sia la vostra forza, andate in pace!
Il saluto a don Francesco da parte della comunità di Valmorea.
Caro Don Francesco,
la tua comunità di Valmorea è qui presente e ti accompagna in questo momento che ti vede compiere il primo passo importante della tua vita sacerdotale: diventare vicario della comunità pastorale Valle Albano.
Lasci la Valle del Lanza, con i suoi verdi panorami per arrivare qui nel cuore del lago di Como che ci appare oggi in tutta la sua bellezza.
Ti consegno idealmente alcune parole, che ci ha lasciato in eredità un nostro compianto sacerdote e parroco don Renzo Scapolo; parole che sono impegnative per noi di Valmorea e che ben descrivono i caratteri di una comunità civile, di una comunità cristiana: uguali, diversi, uniti aperti.
Uguali perché tutti legati da una identità comune di luoghi e storia, ma diversi perché ciascuno svolge un ruolo ed ha un carisma differente; uniti perché essere parte di una comunità è qualcosa di più di un semplice stare insieme, ma è una comunione di intenti; e infine aperti a un mondo che cambia rapidamente, più di quanto pensiamo o vogliamo, e che ci pone sfide quotidiane cariche di preoccupazione e speranza.
Caro don Francesco la tua comunità è qui e ti augura buon cammino.
Il saluto di don Giuseppe
Carissimi tutti nel Signore, mi è sembrato opportuno salutare tutti voi celebrando la santa Messa, e alla luce di quella parola, vi rinnovo anche qui su questo bollettino la mia gratitudine e il mio saluto, che vuole essere non un addio ma un sicuro arrivederci, come e quando solo Dio lo stabilirà.
“Pietro… Pietro… sei un disastro! Non fai a tempo a farne una giusta che subito ne sbagli un’altra!”.
Non si può certo sapere quello che stava pensando Pietro dopo che Gesù lo invita a seguirlo, ma mi risulta consolante e illuminante la sua figura. Consolante perché me lo posso sentire vicino, quante volte al giorno mi capita di trovarmi nella stessa situazione! Il suo viaggio, la traiettoria della sua vita e santità mi dona tanta speranza. Illuminante perché mi fa capire che la sua figura, per come giunge a noi dai racconti evangelici ricalca la situazione di ogni uomo che accetta di entrare in relazione con Dio. Gli evangelisti nel parlarci di Pietro non nascondono la contraddizione insita in ogni credente. Meglio sarebbe forse parlare di tensione più che di contraddizione. Un attimo prima Pietro accoglie dentro di sé un’intuizione spirituale che lo porta a un atto di fede puro e fortissimo, un attimo dopo si lascia sedurre da Satana e dà seguito alle sue ispirazioni. Una mirabile tensione tra il Cielo e la terra. In un momento eleviamo a Dio le più alti lodi e rendiamo a lui Gloria per la sua stupenda opera, e con la stessa bocca sappiamo subito dopo proferire parole che vengono dal Maligno. Gesti di estrema carità pura e gratuità e un attimo dopo cupidigia, orgoglio, invidia e ira ci trascinano verso pensieri e azioni contro i nostri fratelli. Siamo sempre noi sia in un caso che nell’altro; in questa tensione si svolge la nostra esistenza, attimo per attimo, scelta dopo scelta. E come Pietro anche noi siamo chiamati a districarci dentro questa tensione senza scappare. Già, senza “tirarsi in dietro”, come ci suggeriva la prima lettura; mettendoci la faccia e continuando a “petto esposto” la vita anche quando le cose si fanno difficili e dure. Badare bene: non sottrarre il petto non vuol dire agire come se nulla ci possa toccare e scalfire, né tanto meno significa comportarsi con ostinato orgoglio e irremovibile animo. Non sottrarre il petto vuol dire porsi difronte alle cose accettando di metterci il cuore, con il rischio che possa divenire un bersaglio che vien preso di mira. Forse questo è il segreto di Pietro. Mi piace pensare che, come capita anche a tutti noi nei momenti difficili, anche lui sarà tornato con la memoria a quel giorno, quando Gesù è entrato nella sua vita. Quando si è sentito chiamato a seguirlo, perché nel volto di quell’uomo di Nazareth Dio gli ha preso il cuore. Unica condizione della sequela: “mi ami tu?”. È dentro quella unica condizione che tutta la tensione si scioglie e si rinnova l’incontro originale e rigenerante con Gesù che ci interpella personalmente: “Tu chi dici che io sia?”. Quanto mettono in difficoltà le domande dirette; quanto sappiamo dire bene ciò che pensano gli altri; quanto invece chiede libertà rispondere per quello che si ha dentro.
“Tu Sei il Cristo”. Quante volte me lo sono ripetuto e ti ho incontrato e grazie allo Spirito ti ho riconosciuto! Nel rapporto fraterno con don Romano e Padre Simone e poi con don Ivan. In ogni eucarestia celebrata. Nei volti dei bambini generati alla vita divina nel battesimo. Nelle lacrime asciugate a chi piangeva un caro già tornato a Dio. Anche in quella croce portata su per la scalinata di San Gottardo la prima via Crucis dopo la pandemia. Nell’abbraccio dei ragazzi che cercavano un po’ di riparo e un po’ di casa. Tu sei il Cristo! Mi hai chiesto solo di avere un cuore che desiderasse null’altro che di amare come tu ci ami. Il centro della tensione è tutto in questa richiesta. La stessa ripetuta a Pietro sulle sponde del Lago. E per ogni volta che falliamo tu rinnovi la domanda. Grazie Signore per questo tempo qui, per i volti, le storie e le relazioni di chi ha accolto, attraverso la mia fallibile persona, la tua chiamata ad amare sempre, senza porre resistenza e senza tirarsi indietro. Grazie Signore perché il mio partire lascia uno spazio per accogliere un dono tanto raro per una comunità: un prete novello. Una nuova e stupenda missione affidata non solo ai confratelli sacerdoti ma a tutta la comunità. Con don Francesco vivrete un tempo nuovo di grazia. Anche attraverso di Lui il Signore continuerà a donarvi un incontro personale nel quale sciogliere la vostra tensione. Il Signore ve lo affida perché lo generiate pastoralmente alla vita sacerdotale, sarà attraverso il vostro amore che imparerà a coniugare nella vita ministeriale ciò che celebra in ogni messa sull’altare. Nella consapevolezza che nulla può vincere l’amore, parto con la certezza che continueremo nel Signore ad amarci come lui ci ha insegnato.
Con gratitudine e affetto, vostro nella fede, don Giuseppe
Professione temporanea di Fra Mattia.
Sabato 31 Agosto … dall’omelia di fra Francesco: “Un giorno questo in cui si iniziano a raccogliere le primizie di una sequela di un innamoramento nei confronti del Signore Gesù Cristo attraverso l’esperienza viva di Francesco d’Assisi che da 800 anni continua a generare, a fecondare, a interrogare, a far cercare l’Essenziale perché davvero se nella vita non cerchiamo l’essenziale che cosa stiamo cercando?” In questo sabato 31 Agosto nella quiete e nella tranquillità di San Damiano, in quel di Assisi, si è svolta una grande celebrazione: sette novizi dell’Ordine dei Frati Minori hanno fatto la loro prima professione iniziando così il cammino per entrare nell’Ordine Francescano ponendo la loro vita alla sequela di Cristo sull’esempio del poverello di Assisi e sposare in tutto e per tutto il suo modello di vita in povertà umiltà e castità. Tra i sette novizi era presente anche Mattia Biffi giovane donghese che tutti conosciamo. Quale gioia e motivo di grande letizia per la Comunità Pastorale della Valle Albano e per l’intero nostro Vicariato. Lo Spirito Santo aleggia in alto lago e miete frutti divini e di questo non possiamo che ringraziare il Signore! Eravamo un gruppo di 15 in rappresentanza dell’Alto Lago presenti alla cerimonia, insieme a Don Ivan e Don Giuseppe: testimoni di questo dono gratuito che il giovane Mattia fa della sua vita a Cristo. Per noi il tutto è cominciato il giorno prima, venerdì 30, con l’arrivo all’eremo di La Verna dove abbiamo avuto modo di immergerci nella profonda spiritualità di San Francesco, nel suo grande dolore, derivato da un cuore che ha molto amato il suo Signore fino ad imprimere nella sua carne le stigmate del Crocifisso. In San Francesco possiamo rileggere il dolore, che ci attraversa nella vita, come esperienza di trasformazione che ci insegna l’importanza del sacrificio, il “fare sacro” ossia la capacità di rendere sacro il nostro agire per raggiungere la pienezza della vita, la meta più alta della realizzazione e la vera letizia, perché senza sacrificio, senza fatica non c’è pienezza, non c’è soddisfazione. Da La Verna abbiamo poi raggiunto la città di Assisi dove abbiamo visto e vissuto i luoghi di San Francesco: dalla basilica a lui dedicata, alla basilica di Santa Chiara, Santa Maria degli Angeli con la Porziuncola, luoghi di reale testimonianza della vita di San Francesco, del suo cammino spirituale, della sua vita in fraternità; luoghi di ritiro, di preghiera, di spiritualità profonda fino ad arrivare a San Damiano dove tutto ha inizio per Francesco con l’invito del crocifisso “Francesco va’ ripara la mia casa che è in rovina!” e dove abbiamo avuto modo di essere testimoni dell’inizio del cammino di Fra Mattia. La sua voce decisa, ferma e determinata riecheggia ancora nelle orecchie, nella mente e nel cuore di noi che lo abbiamo sentito pronunciare la promessa. Che grande dono! Che grande conforto dell’anima sapere, vedere e conoscere questa realtà di vita condivisa in fraternità. Dev’essere così il paradiso! Davvero è stato come portare in terra uno sprazzo di paradiso, ma giusto un momento per poi ritornare nella realtà quotidiana a sporcarsi le mani e i piedi di umanità, perché come ricordava fra Francesco nell’omelia “… la nostra preghiera non serve a niente se poi non ci sporchiamo le mani di umanità, se la parola ascoltata non diventa pratica, se i piedi non ci portano dove l’uomo è perso, dove crede di essere libero ma ha il cuore morto… Questa è la passione di Francesco, questa è stata la passione per 800 anni dei francescani, questo ci deve riguardare: la tristezza di Dio nel guardare uomini che lo onorano con le labbra, ma che hanno il cuore spento e l’uomo onora Dio quando è vicino al povero, vicino a chi ha il cuore morto ma crede di essere vivo e nostro cuore è vivo quando è rivolto al Signore. La cosa più preziosa che hai tu che stai cercando l’Essenziale è il tuo cuore.” L’augurio allora che vogliamo fare a Fra Mattia è che il suo cuore possa essere sempre in alto, rivolto al Signore. “Con ogni cura vigila sul tuo cuore, da esso sgorga la vita” (Prov. 4,23). Ti assicuriamo, carissimo Fra Mattia, la nostra vicinanza nella preghiera e il nostro impegno perché anche i nostri cuori siano in alto, rivolti al Signore e mai spenti, lontani. Con te ci impegniamo a dire quotidianamente il nostro eccomi perché la nostra vita possa essere una perenne lode a Dio Padre buono e misericordioso che mai si dimentica dei suoi figli. San Francesco, Santa Chiara e Maria Santissima, venerata nel nostro Santuario come Madonna delle Lacrime, ti siano sempre a fianco, sostengano il tuo cammino e ti accompagnino a quella pienezza di vita che solo il Signore Gesù sa donare ai suoi figli.
Oltre l'Italia...l'Albania!
Quest'estate Cecilia Marazzi, una giovane della nostra comunità pastorale, insieme ad un gruppo di giovani di tutta Italia ha partecipato all'esperienza missionaria in Albania con le Suore di Madre Teresa a Scutari (Albania). E' possibile rileggere la loro interessante esperienza cliccando sulla foto a sinistra che rimanda all'articolo sul sito dei saveriani!
Maledizione, malocchio, cartomanti e indovini di Gianfranco Ravasi
Si ha un bel dire che la scienza e la tecnologia dominano oggi la scena. Eppure una folla (e non sempre di ingenui e sprovveduti) si rivolge o crede a cartomanti, maghi, indovini, inventori di oroscopi e affini.Tempo fa mi fu indirizzata questa domanda: «Come la mettiamo con le maledizioni bibliche e col Signore che colpisce i nemici di Israele col “delirio, la cecità, la pazzia” (Deuteronomio 28,28)?». Siamo in presenza, sia con le maledizioni, sia col parallelo antitetico delle benedizioni, di un dato presente in tutte le culture religiose. Si tratta di un fenomeno letterario (si hanno infatti delle formule espressive codificate), sociale (riflettono situazioni e convinzioni popolari) e teologico (hanno alla base il coinvolgimento di Dio stesso). Il principio che vi è sotteso è duplice.
Da un lato, si vuole esprimere la fiducia nella «moralità» di Dio: il Signore non può restare indifferente nei confronti del male e dell’ingiustizia ma deve intervenire ristabilendo l’armonia violata dal peccatore. Si tratta, quindi, di un appello al giudizio divino, la cui sentenza è imparziale e giusta. D’altro lato, si ha un ulteriore tipo di fiducia, quello nella parola che nelle civiltà dell’antico Vicino Oriente era considerata dotata di efficacia soprattutto quando veniva pronunciata in un contesto sacrale.
Come accade per le parole del sacerdote alla consacrazione, capaci di rendere realmente presente Cristo sotto il segno del pane e del vino, così il fedele ebreo era certo di “costringere” Dio a intervenire col suo giudizio attraverso la maledizione rituale. Il contenuto della maledizione era regolato da una dottrina cara all’Antico Testamento, quella della retribuzione, che potremmo riassumere nel binomio «delitto-castigo»: se hai peccato, Dio ti punirà con una malattia.
Contro questa tesi reagiranno aspramente Giobbe e lo stesso Gesù che, davanti al cieco nato, si ribellerà all’idea che la sua cecità sia frutto di un peccato di quello sventurato già nel grembo materno o dei suoi genitori, come sostenevano le varie scuole rabbiniche di allora (Giovanni 9,1-3). Siamo, quindi, in presenza di una concezione che dev’essere spogliata dagli elementi popolari mitici attraverso quella corretta interpretazione che spesso abbiamo spiegato durante l’ormai lungo percorso che stiamo conducendo da tempo in questa rubrica.
Con l’acqua sporca, però, non si deve gettare anche il bambino: fuor di metafora, dobbiamo affermare la verità sottesa. Dio non maledice infliggendo malattie, ma non è indifferente nei confronti della colpa. Con la sua parola ribadisce ciò che è bene e ciò che è male e riserva il suo intervento alla fine della storia personale e universale (Matteo 25). La nostra parola di maledizione o il cosiddetto «malocchio» non hanno nessun effetto maligno sul prossimo, contrariamente alle leggende popolari; anzi, si ritorcono sul soggetto che le pronuncia come atto contro la carità e il perdono.
Lapidarie sono le affermazioni di Cristo nel Discorso della montagna: «Chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, sarà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geenna » (Matteo 5,22). I due termini usati da Gesù nell’originale aramaico che esplicitano (raqa’) o evocano (sotto il greco môré) hanno una carica molto più forte della traduzione adottata perché bollano il prossimo col desiderio di emarginarlo. Al contrario, questa maledizione nel giudizio di Cristo si trasforma in un boomerang, in una paradossale autocondanna di chi l’ha emessa.
L’ arcobaleno di Cristiana Scandura.
“Mamma, Mamma: guarda” – gridò il piccino di tre anni rivolto alla sua Mamma, saltando di gioia, con il ditino puntato verso il cielo, che sembrava ancor più sconfinato visto da lui e un grande sorriso che illuminava il suo visino, attraversandolo da una parte all’altra come una mezzaluna – “C’è un arcobaleno. Che bello!”. La mamma rispose, per nulla contagiata dallo stupore del piccolo: “Figlio mio, io vedo solo le nuvole…”.
Ecco, questa parabola mi sembra che esprima bene il tempo che stiamo vivendo. L’arcobaleno c’è, per grazia di Dio, ma sempre più spesso ci fermiamo a contemplare le nuvole. L’arcobaleno c’è, ma abbiamo perso la capacità di cercarlo, di vederlo, di stupircene, di gioire e di ringraziarne il Signore. Fuori di metafora, il bene è presente nella società odierna ed è anche tanto. Gli esempi di santità ci sono anche nel mondo di oggi.
I santi non sono confinati nei secoli lontani, al contrario, sono presenti oggi, nelle nostre abitazioni, proprio accanto a noi, se ci pensiamo bene forse vi rientra anche il nostro postino o la catechista, il bidello o la suora che ci sorride sempre, il rivenditore dell’edicola o la vicina di casa… Per grazia di Dio, nel corso della storia non sono mai mancati gli esempi di uomini e donne che hanno vissuto la santità nell’umile quotidiano, in qualunque stato di vita, diventando testimoni luminosi della fede.
Riflettere su di essi, meditarne la vita, raccontare il bene che hanno compiuto, la fortezza con cui hanno affrontato le inevitabili prove dell’esistenza, la gioia con cui hanno vissuto il Vangelo, costituisce per noi uno stimolo immenso a fare altrettanto. Ma mi sorge un dubbio: che non sia proprio questo il motivo per cui continuiamo a guardare le nuvole, per non doverci poi rimboccare le maniche e fare la nostra parte? Ma è proprio questo impegno nel bene che rende la vita un’avventura meravigliosa.
Sì, lo spettacolo della santità è come un meraviglioso arcobaleno. Ogni santo, ogni testimone della fede, in definitiva ogni uomo e ogni donna è chiamato a riprodurre in sé una sfumatura di colore unica, personale, irripetibile, originale.
In un’epoca in cui serpeggia una sorta di comodo pessimismo che non porta a nulla di buono e che vi confesso mal sopporto, ritengo tenacemente doveroso, anzi più che doveroso gioioso, ma anche onesto e obiettivo divulgare i luminosi esempi di vita dei testimoni della fede dei nostri giorni. Si tratta di vite riuscite, belle, armoniose, colorate come i colori di un arcobaleno che infondono speranza, ottimismo, desiderio di impegnarsi nel promuovere il bene, voglia di lasciare un’impronta positiva in questo mondo.
Insomma, essere santi, esserlo oggi: è possibile.
Esercizio estivo
Un salutare esercizio che potremo fare in queste settimane di riposo estivo, ha a che fare con lo sguardo verso noi stessi e con il coraggio di prendere un tempo per noi stessi.
Gesù ci insegna a fermarci, a prenderci del tempo e guardarci per come siamo.
Proviamo ad allentare le nostre difese che ci portano, molto spesso, ad identificarci in ciò che facciamo. Io non sono quello che faccio, ma molto di più…
Gesù, come ci ricorda il vangelo, ripete anche a noi questa parola: andiamo via, e riposatevi un po’.
Lo sguardo di Gesù va a cogliere la stanchezza dei suoi. Non si ferma a misurare i risultati dei nostri sforzi e dei nostri ruoli, per lui prima di tutto viene la persona, la salute profonda del cuore.
Più di ciò che fai, a Gesù interessa ciò che sei: non chiede ai dodici di elaborare progetti, di preparare nuove missioni o affinarne il metodo, solo li conduce a prendersi un po’ di tempo tutto per loro, del tempo per vivere. È il gesto d’amore di uno che vuole loro bene e li vuole felici.
Come suggerisce questo testo molto noto:
Prenditi tempo per pensare / perché questa è la vera forza dell’uomo
Prenditi tempo per leggere /perché questa è la base della saggezza
Prenditi tempo per pregare /perché questo è il maggior potere sulla terra
Prenditi tempo per ridere /perché il riso è la musica dell’anima
Prenditi tempo per donare /perché il giorno è troppo corto per essere egoista
Prenditi tempo per amare ed essere amato/perché questo è il privilegio dato da Dio
Prenditi tempo per essere amabile / perché questo è il cammino della felicità.
Prenditi tempo per vivere!
Prendiamoci del tempo, stando anche a casa, e proviamo a stare con Gesù e con noi stessi.
Stai con Gesù, lo guardi agire e lui ti offre il primo insegnamento: come guardare, prima ancora di come agire. Poi, le parole e le azioni verranno e saranno quelle giuste
Vivere la fede in vacanza (di Riccardo Maccioni )
E’ arrivata l’estate e per molti le vacanze.
E, immancabile, porta con sé il messaggio del “don”, del parroco, del direttore spirituale: ricordati che la fede non va in vacanza. E se invece ci andasse? Nel senso che il periodo di riposo serve anche a staccare da abitudini incrostate, da atteggiamenti spirituali stantii, da pesantezze non solo fisiche. Resettare, o meglio aprire le finestre dell’anima per fare entrare aria fresca può essere molto utile. Ben vengano allora, per chi ne ha la possibilità, la spiaggia, la gita in montagna, o anche solo lo stop cittadino, magari in compagnia, sorseggiando qualcosa di buono. Attenzione, però a non dimenticare chi siamo. Qualche anno fa, in un vero e proprio decalogo delle vacanze, i vescovi francesi avevano messo in guardia: spesso in estate «siamo meno cristiani, a volte non lo siamo affatto». Per esempio, si va meno a Messa, si dimentica la dimensione della comunità, si possono assumere atteggiamenti discriminatori e arroganti. Non a caso, molti rapporti proprio in vacanza si rivelano più difficili, perché lontani dalle incombenze, dai doveri quotidiani ci mostriamo per quel che siamo sul serio. L’estate allora, come tempo per andare dentro sé stessi, per guardarsi con gli occhi del cuore, per scoprire che ci sono spigoli nel nostro carattere da smussare. In questo ci aiuta il rapporto con gli altri. In un antico Angelus, il 25 luglio 1965 Paolo VI suggeriva: «date pure all’incontro con le altre persone qualche momento di buona conversazione, specialmente con quelle domestiche: le famiglie si ritrovano forse separate durante l’anno dagli impegni che ciascuno deve osservare con orari così stringenti. Concedetevi momenti di pace domestica e poi anche gli incontri con gli amici, e gli incontri con le poche persone, con i gruppi affini ai quali siete vincolati. Date davvero questa distensione della buona amicizia».
L’estate come tempo per rinsaldare buone relazioni è un invito suggestivo e importante. Da vivere e approfondire, magari alla luce di qualche bella pagina di riflessione o di scrittura, anche solo di romanzo. Il che può aiutarci anche a guardarci meglio intorno. In un suo augurio estivo, datato 24 giugno 2020, papa Francesco auspicava che questo periodo potesse e possa «essere tempo di serenità e una bella occasione per contemplare Dio nel capolavoro del Suo creato». Guardare il bello in cui siamo immersi è infatti la più suadente e per certi versi facile, scuola di fede. E di preghiera, nel senso che lo stupore, la meraviglia facilitano il ringraziamento. Ma il bello non si trova soltanto nella natura o nell’arte. Ma anche negli altri. Vedere il buono nelle persone con cui veniamo a contatto: ecco il compito delle vacanze. Un impegno che può persino spingersi a rovesciare lo stile del nostro riposo, magari sollecitandoci a vivere la dimensione del servizio là dove di solito ci piace che siano gli altri a soddisfare le nostre esigenze.
Ma forse non è neanche quello il punto: a fare la differenza è l’atteggiamento di fondo che anima i giorni di relax. Se non ci consideriamo superiori a nessuno, se non siamo solo impegnati a guardarci allo specchio, persino mettersi a disposizione anziché pretendere che siano agli altri a farlo con noi, può essere un’occasione di festa. «Il cristiano si rallegra di tutto – scrivevano i vescovi francesi – perché la sua gioia è innanzitutto in Dio». Vale anche, anzi soprattutto, per le vacanze. Il cui specchio, per parafrasare madre Teresa di Calcutta, è il sorriso, «che dà riposo alla stanchezza, che nello scoramento rinnova il coraggio». Buona estate dello spirito allora, con la speranza di tornare dai giorni di riposo con il cuore un po’ più felice. Consapevoli che se la fede va in vacanza, è per rafforzare i muscoli dell’anima, per pulire lo sguardo, per ritrovare nel vocabolario del cuore la parola “grazie”. Grazie per la vita, per la bellezza che circonda, per il dono degli altri.
Noi in equilibrio tra gli aeroplani e il paracadute (di Marco Voleri)
Sia l’ottimista che il pessimista danno il loro contributo alla società. L'ottimista inventa l'aeroplano, il pessimista il paracadute. George Bernard Shaw La vita è una sinfonia di opposti, una composizione maestosa dove ogni nota – nonostante possa sembrare a volte fuori posto o in contrasto con le altre – ha il suo spazio e il suo momento. In questo grande spartito, ottimisti e pessimisti danzano al ritmo di un dualismo eterno, un pas de deux tra speranza e realtà, tra ciò che potrebbe essere e ciò che è. Gli ottimisti solcano i cieli della fantasia e del progresso, tracciando arcobaleni tra le nuvole e dipingendo l'azzurro con il pennello dell'immaginazione. Inventori, sognatori, volontari, e molti altri. Ecco il puzzle variegato di coloro che vedono nel domani la promessa di un sole radioso, anche quando il cielo è coperto. La loro fede nel futuro è il motore che ha spinto l'umanità oltre i confini del già noto, facendoci osare ciò che una volta era impensabile. Hanno dato, ad esempio, ali alla nostra specie, con l'invenzione di macchine volanti che hanno reso il cielo non più un limite ma un nuovo inizio. Dall'altra parte, i pessimisti sono i custodi della prudenza, i guardiani della saggezza ancestrale che ci insegna a guardare prima di saltare. Sono coloro che tessono paracadute con i fili della cautela, che preparano piani B e salvagente, non per augurarsi il peggio ma per garantirci che, anche di fronte all'inevitabile gravità delle circostanze, potremo atterrare in piedi. Il loro contributo non è meno prezioso di quello degli ottimisti, perché ci ricordano che l'audacia senza riflessione è spesso pericolosa: ogni volo può nascondere una caduta. In questo eterno contrasto, va in scena la vita. Non si tratta di scegliere chi ha ragione e chi torto, perché entrambi sono essenziali al nostro progresso e alla nostra sopravvivenza. L'ottimista che non ascolta il pessimista può facilmente bruciarsi le ali, ma il pessimista che non si lascia mai tentare dal volo può dimenticare il brivido dell'ascensione e la bellezza del mondo visto dall'alto. Ecco, allora, che la vita si rivela un tessuto di molti fili, alcuni tesi verso il cielo, altri ancorati in terra. E noi, tessitori incerti tra questi fili, cerchiamo il giusto equilibrio tra coraggio e cautela, tra innovazione e memoria, tra il desiderio ardente di volare e la necessità vitale di sapere come atterrare. In questo convivono la nostra grandezza e la nostra fragilità: in questo dialogo continuo tra ciò che ci spinge in avanti e ciò che ci trattiene indietro. E, forse, è proprio questo perenne dibattito tra l'essere ottimisti o pessimisti, tra l'inventare aeroplani e il costruire paracaduti, che si nasconde la vera essenza del nostro crescere quotidiano: la capacità di immaginare mondi migliori, pur non perdendo mai di vista la realtà dei mondi che abitiamo. La speranza e la prudenza non sono nemici, ma compagni di viaggio: due facce della stessa medaglia che, insieme, ci portano verso orizzonti sempre nuovi, con la consapevolezza che volare è possibile, ma sapere atterrare è necessario.
L’invidia, imparare da chi è migliore di noi (di Marco Voleri)
Sono immune dall’invidia, libero di provare ammirazione e amicizia, che bellezza! Non c’è niente di più triste di qualcuno che soffre per il successo altrui, che è schiavo della critica e del rancore, che trasuda invidia, che si dibatte nel dispetto: un infelice. Jorge Lo confesso, ho molti difetti. Ho provato a scriverli a penna su un foglio e, in effetti, ci sono cose che non posso cambiare, altre che potrei migliorare, altre ancora che sono vizi più che difetti. Ci sono anche cose che so fare bene, che faccio con passione, piacere e costanza, anche se si tratta spesso di lavoro. Nella mia vita ho incontrato tante persone più brave di me e, se mi devo riconoscere un pregio, devo tornare a uno spunto che mi diede mia mamma in adolescenza: “quando c’è qualcuno che lavora bene osservalo e prendi tutto quello che fa, facendolo diventare tuo”. Così ho sempre fatto, in effetti. Chi è più bravo di te – e capita a tutti noi di trovarcene uno di fronte – è spesso fonte di ispirazione. In qualche caso anche di invidia. Qui mi faccio una domanda semplice: se sai fare bene le tue cose, perché devi invidiare? E, ancora: invidiare chi? Uno che è più bravo di te? Devo dire che raramente ho invidiato uno più bravo di me, e ne ho conosciuti tanti. Ho avuto la fortuna di incontrare molte persone nella mia vita, ho conosciuto gente più colta di me, che ha fatto cose belle e importanti. E sapete cosa? Mi è spesso sembrato un bel regalo poterci stare insieme a parlare. Mezz’ora, magari, con uno più bravo di me. Penso che una chiave di lettura interessante, rispetto a questo, sia porsi nella condizione mentale di sentirsi un eterno apprendista. Essere disposti a migliorare, imparare, cogliere ispirazione da chi è più bravo di noi è una delle chiavi per poter crescere a livello personale. Di converso, l’invidia riesce in un attimo a oscurare – come un vetro appannato – la nostra visione. Pensate allo sport: a me, ad esempio, piace molto il gioco del biliardo all’italiana, quello con quattro birilli bianchi e uno rosso, tre palle di colori diversi, senza buche. È una pratica che mi appassiona, ho preso anche qualche lezione in passato, ma sono abbastanza negato. Se vuoi imparare a giocare a biliardo non devi giocare col segnapunti ma con uno bravo. E cosa succede quando giochi con quello bravo? Perdi, magari ti lascia a zero. Ma impari. Con il giocatore mediocre forse vinci, ma non impari niente. Nel mondo artistico ho avuto la fortuna di incontrare artisti con talento puro, dai quali ho imparato molto. La cosa che ho assimilato di più, al netto delle prestazioni artistiche, è il comportamento dei grandi artisti, quelli che portano cognomi importanti e si comportano con umiltà ed eleganza. Ecco cosa: nella mia piccola esperienza, i grandi artisti che ho conosciuto hanno sempre avuto questa caratteristica. Altri, molto meno grandi, hanno spesso mostrato invidia, arroganza e prepotenza, generando un clima violento. La violenza non è forza ma debolezza, è qualcosa che non crea ma distrugge. Esattamente come l’invidia che, come diceva Isaac Asimov, è l’ultimo rifugio degli incapaci. Imparare da chi è più abile di noi credo possa essere la chiave per superare i nostri limiti, scoprirne di nuovi e raggiungere nuove vette di realizzazione personale neanche immaginate.
UT UNUM SINT di don Sergio Carettoni.
Non vi è alternativa nella vita della Chiesa se non dentro una ritrovata centralità del Cristo, il Risorto, per cammini di uomini e di donne a loro volta personalmente in viaggio lungo sentieri evangelici di fraternità, con nel cuore, nella mente e nella volontà di ciascuno un senso profondo e totale di generatività, di fecondità, di bellezza e di significatività nello Spirito santo.
È nel primario valore dell’unità, grazie al rispetto evangelico delle diversità di ogni persona e di ogni Comunità, e nel secondario valore delle molteplici diversità, protese ciascuna e tutte insieme alla reciproca unità, che Gesù pone, non tanto la metà di un cammino ancora tutto da compiere, bensì il punto di partenza di ogni relazione già in corso, affinché sia vero il viaggio esistenziale di discepolato e di apostolato dei suoi.
Sappiamo bene che l’affermazione “Affinché siano una cosa sola” non è solo la traduzione italiana dell’espressione latina che ritroviamo nel racconto evangelico di Giovanni, quando egli riporta il pensiero volitivo e programmatico di Gesù: i miei discepoli siano una cosa sola come io e te, o Padre, lo siamo sempre fin dal principio; anch’essi siano una sola cosa con noi e la stessa cosa tra loro.
All’interno di ogni singola espressione di Chiesa, dentro le più diverse esperienze quotidiane di Comunità dei discepoli di Gesù – che si tratti di un piccolo gruppo di credenti o di una ben più articolata vita parrocchiale, o di una struttura estesa di Chiesa diocesana e Universale – riecheggiano sempre le medesime parole di Gesù, non solo come memoria del desiderio orante espresso una sera dal giovane Maestro di Nazareth, bensì come un imperativo evangelico, sia a livello personale sia a livello comunitario. È un imperativo ben saldo, costantemente posto di fronte a ciascuno e a tutti: essere uno con gli altri discepoli, essere insieme una unità con il Figlio, nel raggiungimento della meta del Padre, lungo le infinite vie di Vangelo, abitate tutte dallo Spirito santo.
Tra fratelli e sorelle per medesima fede in Gesù, il Risorto, l’unità tra loro non è desiderio, bensì espressione operosa della volontà di Dio. Qualcosa che chiede il coinvolgimento della coscienza di ciascuno, la scelta di crescere giorno per giorno in un legame reciproco di appartenenza – gli uni agli altri e gli altri al singolo –, perché non si è mai Chiesa facendo a meno di qualcuno a noi diverso, ma sempre dentro lo sforzo di accogliere, di abbracciare e di amare la diversità pulsante nella immensità dell’umanità.
(…)Partendo, allora, dal binomio unità e diversità, ci ritroviamo pur sempre di fronte all’imperativo di avviare come singole Chiese processi di unificazione evangelica, anzitutto interna, conseguentemente esterna. Utile diventa una bilancia dove, se sul piatto destro abbiamo a che fare con l’imperativo di essere consapevoli e rispettosi delle differenze e delle reciproche frammentarietà presenti nelle persone e nelle singole Comunità ecclesiali, sul piatto di sinistra siamo spinti a misurarci, a tentare ancora una volta, a crescere insieme di fronte all’altrettanto imperativo evangelico dell’unità.
“Uniti nella diversità, diversi nell’unità” non è un gioco di parole, o un calcolo di equazione relazionale, semmai la possibilità di dare medesimo valore al termine unità e al termine diversità. E qui la sfida del bilanciamento reciproco e misericordioso si fa grande perché, al di là degli equilibrismi di pensiero e di azione di ciascuna Confessione, per il vero discepolo e apostolo di Gesù in gioco c’è solo il raggiungimento e la condivisione dell’unica meta, la paternità di Dio, quella del Dio di Gesù, il Figlio unigenito e unificante, il Cristo Risorto, che ritorna a essere orizzonte e punto di arrivo di ogni singolo percorso e vissuto di fede.
È la condivisione della paternità di Dio punto di arrivo, certo, ma anche memoria pulsante di un punto passato di partenza, che dentro il vissuto dei singoli discepoli del Figlio suo ricorda e narra a tutti come tutti veniamo da lui e a lui molti ritorniamo per la via del Risorto. (…)
La dynamis divina, cioè la forza potenziante dello Spirito santo ecco non solo creare occasioni di incontro fra le diversità ecclesiali, ma il rinascere in ciascuna di esse della volontà di un nuovo legame con il medesimo Vangelo, nodo di unità nella diversità per quanti vi aderiscono con libertà di cuore, di mente e di volontà. Tutto è possibile, quindi, anche ricomporre saldamente ogni vissuto di passata frattura, tutto nella forza del Cristo Uno.
Centro di ascolto vicariale
Il Centro di Ascolto è un’espressione della comunità cristiana e della propria testimonianza di fede. È uno strumento che la comunità si dà per ascoltare coloro che si trovano in difficoltà.
L’ascolto è lo stile, il modo di essere, che qualifica l’attività del Centro d’Ascolto e che racchiude in sé le motivazioni profonde che ne richiamano la dimensione evangelica. Così facendo il Centro di Ascolto si colloca tra quegli strumenti operativi che aiutano a capire che la funzione pedagogica della Caritas non è una questione teorica ma deve realizzarsi in una pratica coerente e credibile di servizio.
Dalla comunità il Centro di Ascolto riceve il mandato dell’ascolto dei poveri e ad essa riporta le richieste dei poveri, ricoprendo un ruolo pastorale attraverso il quale si offre una risposta concreta alle persone e si stimola la solidarietà e la corresponsabilità di tutta la comunità nel servizio verso il prossimo.
È il luogo, la cui funzione è quella di incontrare, accogliere, ascoltare e prendere in carico una persona che vive una situazione di fragilità sociale, economica e culturale rispettando, senza pregiudizi e prevaricazioni, le storie di vita incontrate.
Anche nel nostro vicariato è presente, a Gravedona, un centro di ascolto portato avanti dall’opera volontaria di alcune persone. Le richieste sono tante e le forze poche; pensaci...essere volontario del Centro di ascolto potrebbe essere un modo per far fruttificare i talenti che abbiamo. Il centro di ascolto si trova in via Don P. Pedroli 1 (piazzale della chiesa) Gravedona ed Uniti – Fraz. Consiglio di Rumo (CO),
Tel. 0344 81266,
Email casaincarita@gmail.com
orari segreteria: Martedì 14.00 – 15.30, Sabato 10.15 – 11.45
Sinodo sulla sinodalità.
È terminata il 29 ottobre la prima sessione dell’assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi che ha continuato il processo sinodale aperto il 9 ottobre 2021. Dopo le tappe diocesane, nazionali e continentali e in vista della seconda sessione dell’assemblea che si terrà a ottobre dell’anno prossimo; è stata diffusa l’attesa relazione di sintesi dei lavori che sono stati portati avanti in questo mese da vescovi, diaconi e presbiteri, consacrate e consacrati, laiche e laici, testimoni di un processo che intende coinvolgere tutta la Chiesa. Il documento, intitolato Una Chiesa sinodale in missione, raccoglie gli elementi principali emersi nel dialogo, nella preghiera e nel confronto, secondo uno stile, quello della sinodalità, che si sta cercando di imparare.
I lavori si sono svolti seguendo la traccia offerta dall’Instrumentum laboris, identificando e rilanciando le questioni ritenute prioritarie e i temi bisognosi di approfondimento. Questa relazione, infatti, è uno strumento al servizio del discernimento che dovrà essere fatto conseguentemente. Essa è strutturata in tre parti: “Il volto della Chiesa sinodale”, sui principi teologici che illuminano e fondano la sinodalità; “Tutti discepoli, tutti missionari”, riguardante coloro che sono coinvolti nella vita e nella missione della Chiesa; “Tessere legami, costruire comunità”, sulla sinodalità come insieme di processi e rete di organismi che consentono lo scambio tra le Chiese e il dialogo con il mondo.
Venti capitoli sono suddivisi in queste tre parti e ognuno di essi raccoglie: le convergenze, ovvero i punti fermi a cui la riflessione può guardare; le questioni da affrontare, quindi ciò che necessita di ulteriore approfondimento teologico, pastorale, canonico; le proposte, possibili piste da percorrere suggerite, raccomandate o richieste con determinazione. I 273 punti sono stati approvati a larghissima maggioranza dall’assemblea sinodale, con consensi quasi sempre ben oltre il novanta percento. Tra i tanti argomenti toccati ci sono la sinodalità («La ricchezza e la profondità dell’esperienza vissuta conducono a indicare come prioritario l’allargamento del numero delle persone coinvolte nei cammini sinodali»), l’iniziazione cristiana («rendere il linguaggio liturgico più accessibile ai fedeli e più incarnato nella diversità delle culture»), il ruolo dei laici («I carismi dei laici, nella loro varietà, sono doni dello Spirito Santo alla Chiesa che devono essere fatti emergere, riconosciuti e valorizzati a pieno titolo»). (tratto da www.retesicomoro.it).
La relazione di sintesi completa è disponibile su www.synod.va
Formiamo tutti una comunità
La famiglia in cui si nasce, la comunità in cui si vive, le persone conosciute, gli amici, la scuola, la cultura dell'ambiente: tutto incide profondamente nel tessuto dell'esistenza e ne fa parte.
Nello stesso tempo la vita di ciascuno, le decisioni che si prendono lasciano traccia di sé nella vita degli altri, negli ambienti che si frequentano.
Nessun uomo è un'isola. La pianta della vita non cresce nella solitudine di un deserto. Vivere con gli altri fa parte dell'esistenza umana, ma è anche una responsabilità.
Le persone hanno un grande potere gli uni sugli altri.
Si può esercitare o subire per il bene, ma anche per il male.
Giuseppe pedalava felice sulla bicicletta nuova per la via principale della sua città. C'era un po' di traffico, ma era così bello sfrecciare in mezzo alle macchine. Ai semafori riusciva sempre a risalire la colonna di automobili che lo avevano superato.
Mentre pedalava imitava il rumore di un motore con le labbra. Si sentiva una Ferrari.
Era così preso dalla sua immaginaria velocità che si accorse della via di casa, che si diramava sulla sinistra, solo all'ultimo momento. Scartò bruscamente verso il centro della strada dimenticandosi di segnalare la svolta con il braccio. Sentì lo stridio disperato dei freni dell'auto che Io seguiva. Seguirono uno strillo e una colorita serie di imprecazioni. Lo strillo era stato emesso dalla signora Calderoni che stava tranquillamente camminando sul marciapiede con la borsa della spesa e si era improvvisamente trovata a una spanna l'automobile che aveva sbandato. La signora Calderoni finì seduta poco dignitosamente sul marciapiede, mentre la borsa della spesa si rovesciava per terra.
Una bella arancia rotolò via e il cane del Commendator Gigli, giocherellone com'era, parti al suo inseguimento, ma in questo modo tese il guinzaglio e fece traballare bruscamente il suo padrone, che, per non cadere si appoggiò su Mario, il postino, che stava infilando la posta nelle buche dei portoni.
Così una lettera indirizzata in Via Verdi 123, finì in una buca del 121.
La lettera era indirizzata al ragionier Lanfranchi e lo convocava urgentemente, proprio quella mattina, al suo nuovo posto di lavoro. Il ragioniere non la ricevette e perciò decise di approfittare della mattinata per dare un'occhiata alla caldaia. Trafficò un bel po', ma non era molto pratico e si fece un bel taglio a un braccio.
Corse al Pronto Soccorso dell'Ospedale e di là avvertì la moglie, che lavorava in banca.
La moglie del ragioniere era un po' apprensiva, si fece sostituire dalla collega Olga e accorse all'Ospedale. Olga telefonò al marito Giorgio che faceva il centralinista-traduttore alla base dei cacciabombardieri della Nato: «Devo sostituire una collega, vai tu a prendere i bambini a scuola». Giorgio uscì cinque minuti prima che finisse il suo turno di lavoro e arrivasse il cambio.
In quei cinque minuti arrivò una comunicazione disperata in codice dall'altra parte del mare: «Un missile impazzito è sfuggito al nostro controllo e si dirige su di voi. È un errore, non un atto di guerra. Ripeto: non è un attacco! È solo un tragico errore!». Nessuno prese la comunicazione.
Qualche minuto dopo il missile si abbatté sulla base. Il Quartiere Generale ordinò di rispondere all'attacco con un feroce bombardamento. Gli altri risposero con una rappresaglia peggiore.
Altri paesi si lasciarono coinvolgere. Una settimana dopo era Guerra Mondiale.
E tutto perché Giuseppe non aveva segnalato la svolta a sinistra.
C’è un legame invisibile che collega gli uomini tra di loro. Si vive sempre con gli altri.
Non dovremmo mai dimenticare questa realtà:
gli esseri umani si influenzano a vicenda nel bene e nel male.
Nessuno dei nostri atti è neutro. Siamo stati creati per essere popolo, comunione.
I cristiani sono chiamati a costruire il regno di Dio:
una comunità di giustizia, di amore, di pace, di solidarietà.
(tratto da: Bruno Ferrero, Parabole e storie, Elledici)